Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, il dolore eterno - Recensione
Sviluppatore: Kojima Production Publisher: Konami Disponibile per: PS4-PS3-X360-XONE-Steam Disponibile da: 1 settembre 2015 Piattaforma di prova: PS4
In medicina, si intende “dolore fantasma” lo status nel
quale un paziente, privato di uno o più arti, continua ad avvertirne la
presenza, mandando in tilt il cervello che ne codifica un falso input di
dolore. Presa in questo modo, è un po’ la metafora di quel che è successo a
Hideo e alla Kojima Productions che dopo aver partorito e accudito la serie di
Metal Gear, se l’è vista amputare via da Konami armata di una mannaia chiamata
marketing. Nonostante le recenti vicissitudini con il publisher, il team
nipponico non s’è voluto arrendere e ha continuato a lavorare alacremente sul
suo ultimo progetto, sfornando così un mastodontico canto del cigno che vale la
pena ascoltare.
La storia narrata da Kojima in The Phantom Pain è
spettacolare, coinvolgente, misteriosa. Essa ha luogo 9 anni dopo la caduta
della Mother Base (MB) mostrata in Ground Zeroes e inizia nel momento esatto in
cui Big Boss, rimasto in stato comatoso per i suddetti anni, si risveglia. Dopo
uno dei prologhi più intensi mai visti in un videogame che sposa
eccellentemente la fase tutorial e che già in pochi minuti crea un tensione
inaudita, Big Boss entra a far parte dei Diamond Dogs, una forza militare privata
che attendeva il suo ritorno per vendicarsi di colui che ordinò la distruzione
della Mother Base: Skull Face. Come di consueto, la narrativa in un Metal Gear
ne è il perno centrale attorno al quale si districano tutte le altre componenti
e pertanto non ne rivelerò nessun altro dettaglio. Sappiate però che con The
Phantom Pain il buon Hideo si è divertito a malmenare senza pietà tutti i miei
neuroni, uno ad uno. Con i suoi piani sequenza e le sue inquadrature claustrofobiche, il cinefilo nipponico è riuscito a fondere
egregiamente una narrativa bipolare, in parte fantascientifica e in parte iperrealistica, mettendo continuamente in dubbio le
mie convinzioni.
Purtroppo, a causa del gameplay strutturato a missioni, la storia è stata diluita rispetto alle precedenti iterazioni. La suddivisione a missioni impone infatti un ritmo più lento di narrazione, ma poiché essa giunge al giocatore mediante più elementi (cutscene, cassette, chiamate codec etc), non ci sarà mai una fase di stallo. O quasi. Proprio come Peace Walker, The Phantom Pain ha un finale segreto e vi farà sudare parecchio prima di arrivarci, considerando che bisogna concludere alcune delle missioni più ardue del gioco per sbloccarlo. Insomma, una sorta di premio per i più tenaci e fin qui tutto bene. Il problema sorge se si considera l'intervallo di tempo tra un finale e l'altro, decisamente troppo elevato per i giocatori della domenica.
Volendo trovare un difetto nell'idillio narrativo sopra descritto, bisogna andare a scavare verso il finale. Un evento che non sto qui a spoilerare non troverà una sua chiusura, né qui né in altri esponenti della MetalGearSaga. Intanto, sul web è trapelata una missione (51) ancora in lavorazione che andava a colmare questa lacuna e che probabilmente è stata tagliata via per motivi di budget. Sia chiaro che il finale incluso nel gioco è più che degno di essere chiamato tale, ma quella missione mancante stona con il complesso intreccio narrativo che ha alle spalle. Davvero un peccato.
Purtroppo, a causa del gameplay strutturato a missioni, la storia è stata diluita rispetto alle precedenti iterazioni. La suddivisione a missioni impone infatti un ritmo più lento di narrazione, ma poiché essa giunge al giocatore mediante più elementi (cutscene, cassette, chiamate codec etc), non ci sarà mai una fase di stallo. O quasi. Proprio come Peace Walker, The Phantom Pain ha un finale segreto e vi farà sudare parecchio prima di arrivarci, considerando che bisogna concludere alcune delle missioni più ardue del gioco per sbloccarlo. Insomma, una sorta di premio per i più tenaci e fin qui tutto bene. Il problema sorge se si considera l'intervallo di tempo tra un finale e l'altro, decisamente troppo elevato per i giocatori della domenica.
Volendo trovare un difetto nell'idillio narrativo sopra descritto, bisogna andare a scavare verso il finale. Un evento che non sto qui a spoilerare non troverà una sua chiusura, né qui né in altri esponenti della MetalGearSaga. Intanto, sul web è trapelata una missione (51) ancora in lavorazione che andava a colmare questa lacuna e che probabilmente è stata tagliata via per motivi di budget. Sia chiaro che il finale incluso nel gioco è più che degno di essere chiamato tale, ma quella missione mancante stona con il complesso intreccio narrativo che ha alle spalle. Davvero un peccato.
Un ultimo appunto prima di chiudere con la trama. Il titolo non lo si conclude prima di un minimo di 50 ore di gioco, missioni secondarie escluse. Considerando tutte le audiocassette, missioni secondarie e requisiti per sviluppare oggetti, 60 ore ci stanno tutte.
What does the FOX say?
Il FOX Engine, questo il nome del motore grafico sviluppato
ad hoc per The Phantom Pain, aveva già mostrato il suo potenziale in Ground
Zeroes, dove a sopperire alle dimensioni ridotte di Camp Omega sul piano
tecnico erano la gestione delle animazioni facciali, dell’illuminazione e
soprattutto la sua estrema scalabilità. Grazie ad essa infatti le macchine next-gen di Microsoft e Sony
riescono a riprodurre il vastissimo mondo di TPP con un frame rate granitico a
60 immagini e ad una risoluzione ben più elevata rispetto ad altri giochi sul
mercato; parliamo di full HD per PS4 e 900p per XboxOne, quest’ultimo reduce da
un’operazione di ottimizzazione graditissima rispetto a Ground Zeroes che si
fermava a soli 720p. Numeri a parte, il colpo d’occhio che offrono Afghanistan
e Africa nel gioco è semplicemente affascinante, aiutato dalla già citata
gestione di ombre e luci dell’engine. Andando nel dettaglio, è d’obbligo
menzionare il lavoro fatto sui volti dei personaggi. Tralasciando il fatto che
ogni NPC è unico e irripetibile e che quindi non capiterà mai di incrociare una
faccia già vista, qualsiasi viso andrete ad incappare nel gioco è realizzato
con una minuzia tale da sfiorare il fotorealismo. Aggiungete a ciò le
animazioni facciali sviluppate in Motion Capture -tra l’altro realizzate sui
doppiatori stessi per portare al massimo il lip sync- e i tocchi
cinematografici del buon Hideo ed avrete sul fronte tecnico uno dei giochi più
promettenti in assoluto. Da segnalare inoltre l’assenza quasi totale di
aliasing, grazie sia al leggerissimo FXAA implementato, sia per la risoluzione
elevata sul monolite di Sony.
“There’s no place for angels in Outer Heaven”
Infine, approfondiamo il punto forte della produzione: il
gameplay. Nella sua opera finale, Hideo si è voluto sbizzarrire con ogni estro e
intuizione che gli passava per la testa, arricchendo di dettagli e
meccaniche ciò che ha tutte le carte in regola per essere candidato al GOTY 2015.
Signori miei, possiamo finalmente affermare con certezza –e un pizzico
d’orgoglio da fan- di essere davanti al Metal Gear definitivo: un intreccio
complesso e delicato di meccaniche che si sorreggono l’un l’altra in un modo
pressoché perfetto. Per sintetizzare il concetto in poche parole, immaginate di
prendere la parte gestionale di Peace Walker, di elevarla all’ennesima potenza
rendendo la Mother Base un qualcosa di concreto e tangibile e di incorporarla
al gameplay già collaudato di Ground Zeroes. Non siete ancora contenti? A ciò
aggiungete un numero esorbitante di missioni secondarie, un sistema dinamico di
difficoltà, il sistema Buddy, due macroaree grandi ognuna 30 volte Camp Omega,
il ciclo giorno-notte, un sistema meteo e, infine, le Forward Operating Base.
Per non parlare delle modalità online in arrivo il 6 ottobre. Troppo poco vero?
Iniziamo subito parlando della novità più succulenta: la
Mother Base. Riproposta in una versione più raffinata rispetto a Peace Walker, funge ancora da hub centrale e da elemento imprescindibile per un corretto avanzamento nel gioco. In base al numero di soldati assegnati alle diverse sezioni aumenterà in livello di queste ultime, avendo così più o meno vantaggi. Per
esempio, aumentando il livello della squadra di Ricerca si potranno costruire più
armi e gadget; incrementando quello di Spionaggio sarete sempre informati dei
soldati nelle vicinanze e dei repentini cambiamenti climatici; la sezione di Supporto
gestisce invece i rifornimenti, la velocità di dispiegamento dell’elicottero
etc.; l’unità di Combattimento fungerà da esercito per le missioni esterne,
ancora una volta importate da PW; lo squadrone Medico svilupperà armi ai
tranquillanti, oltre a medicare i feriti della sez. di Combattimento; infine, l’unità
di Sviluppo Base permette la costruzione di più piattaforme per ingrandire la
MB, potendo così disporre di posto per nuovo personale. A differenza di PW, in TPP non dovrete andare in giro fultonando più soldati possibili senza un criterio apparente, ma bisogna farlo giudicando anche le sue caratteristiche passive. Siete in un avamposto sovietico?
Bene, prelevate quanti più soldati preferite, ma sarà del tutto inutile se nella
MB non c’è un interprete russo-inglese. Avete adocchiato una recluta
irascibile? Probabilmente sarà un “piantagrane” e procurerà delle risse una
volta giunto in MB facendo finire alcune persone in infermeria, di contro, una guardia pacata sarà un “diplomatico” e manterrà in buoni rapporti la sezione.
V has come to.
Se avete familiarità con il sistema di controlli introdotto
in Ground Zeroes, quello in The Phantom Pain ne sembrerà la versione 2.0. I controlli per le meccaniche base sono immutati (schiacciarsi verso un muro,
cambiare postura, mirare, etc.) così come il sistema di marcatura ancora
indispensabile. Ciò che però non poteva evincere in Ground Zeroes e che qui
trova una ragion d’essere è il Level Design. In un open world, il level design
è un elemento fondamentale spesso trascurato dalle case produttrici in favore
di un colpo d’occhio generale – coff coff Ubisoft coff- ma la Kojima Production è
riuscita a fondere un colpo d’occhio strabiliante con un level design tanto
ispirato quanto intelligente. Se ben rammentate, Kojima si è vantato più volte
di quanti modi ci siano per portare a termine una missione. Ebbene, ogni livello di TPP gode di un design così elaborato che riesce pienamente a supportare ogni tattica scelta dal giocatore. Ma andiamo avanti che di roba da dire ce n'è, e anche parecchia. Per la prima volta nella serie, Snake
abbandona la vita da lupachiotto solitario e potrà essere accompagnato in missione da 4
spalle differenti. Mettendo da parte D-Horse che oltre ad essere un più che eccellente
mezzo di trasporto rimane un comune cavallo che defeca a comando, quindi parliamo delle altre
spalle nettamente più importanti e tutte da trovare in modo opzionale nella
trama. DD, il tenero cucciolo raccolto da Snake nella
seconda missione, una volta cresciuto funzionerà da spotter, marcando tutto ciò
che il suo naso fiuta nell’arco di cento metri. Se il legame è abbastanza alto,
potrà abbaiare per attirare nemici oppure tenere impegnata una guardia attaccandola.
Quiet, il cecchino che ha addosso più polemiche che vestiti andrà per voi in
ricognizione per marcare la maggior parte dei nemici negli avamposti, mentre una volta
schierata in attacco vi offrirà copertura (se girate l’angolo ed un nemico vi
scopre, Quiet non esiterà a ficcargli una pallottola in testa se è nel suo
raggio visivo). Infine, il D-Walker, per quanto veloce e silenzioso possa
essere, grazie alla sua natura di Battle Tank invoglierà qualsiasi giocatore a cimentarsi
nella mischia in stile Rambo. Continuando, voglio approfondire il concetto di
difficoltà dinamica del gioco. Non troverete nessun menù per impostare una
difficoltà, tuttavia i soldati nemici si adegueranno al vostro tipo di gioco,
il che è semplicemente da applausi, perché vi costringe a cambiare approccio
più e più volte nel gioco. Se il vostro forte sono i colpi tranquillanti alla
testa, nel giro di un paio di missioni alcuni soldati andranno in giro con
elmetti protettivi lamentandosi degli strani colpi di sonno; se amate lanciare
granate fumogene sempre più soldati indosseranno maschere antigas; se preferite
la sicurezza del buio, le guardie nemiche porteranno con sé visori notturni. E
di certo non finisce qui. Al contrario, se fallirete più volte una missione
potrete equipaggiare il Chicken Hat, un cappello da pollo che vi faciliterà non
poco la vita, anche se dubito che qualcuno con un pizzico di dignità ne faccia
uso. Meglio morire cento volte, piuttosto. Come accennato 2500 battute prima, appena dopo il primo finale il titolo dà la possibilità al giocatore di rigiocare delle
missioni già completate con 3 handicap differenti: Total Stealth, Subsistance ed
Extreme. La prima dichiara Game Over quando si viene scoperti dal nemico, la
seconda non permetterà l’utilizzo di spalle e tutto l’equipaggiamento sarà da
trovare in loco, mentre la terza potenzia a dismisura il danno delle guardie
avversarie. Inutile dire che in queste modalità il gioco raggiunge l’apice dell’hardcore
e mostra la sua vera natura di stealth nudo e crudo.
Adesso, a tutto ciò che ho annoverato poco prima aggiungete
il ciclo giorno-notte, un sistema meteo che causerà precipitazioni e tempeste
di sabbia in modo del tutto casuale e la possibilità di richiedere rifornimenti
cambiando nel corso della missione spalle ed equipaggiamenti e avrete, signori
miei, il GOTY 2015.
Pensiero Finale
Metal Gear Solid V: The Phantom Pain è una storia di
vendetta. La storia che ha cambiato per sempre Big Boss, e noi con lui. L’ultima
fatica di Hideo e della Kojima Production è un’opera destinata a troneggiare
nell’olimpo dei videogames, grazie ad una regia divina e una trama matura,
coadiuvate da un gameplay finissimo e profondo. L’ultima avventura di Snake è come
noi la aspettavamo: cupa, mastodontica, angosciante e introspettiva, un’opera
transmediale che in ogni corso universitario di game design occuperebbe almeno
una settimana di studi e che nessun giocatore dovrebbe lasciarsi sfuggire. Bentornato Hideo, ci sei mancato.
Valutazione Complessiva: 9.7





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